INTERVISTA A MARCO BERTOLI
di Alberto Arienti
Assiduo e pertinente collaboratore de "La Pagina del Jazz" è riconoscibile per l'eleganza delle sue stroncature.
1
Hai una definizione di jazz che condividi particolarmente?
Ne
ho lette diverse, come tutti, ma dirà
qualche cosa il fatto
che non me ne ricordi con precisione nessuna…
Anche se con gli anni il
problema della definizione è andato preoccupandomi sempre meno (ma
non perché non
sia importante), nelle musiche che riconosco come “jazz”
mi sembra presente una volontà
di comunicazione
immediata con chi ascolta, momento per momento, che non è di
necessità presente
in altre musiche contemporanee (soprattutto quelle che si propongono
non come linguaggio ma come arredo sonoro) e che richiede
all’ascoltatore
un’attenzione
e un coinvolgimento continuo; all’orecchio,
questa sollecitazione si esprime attraverso una varietà
ritmica che genera
quell‘impulso
della musica ‘in
avanti’,
incalzante, che convenzionalmente chiamiamo swing.
Capisco
bene che queste qualità,
anche a volerle dire necessarie a definire il jazz, non sono
sufficienti, perché si
possono ritrovare anche in altre musiche, e provo a chiarire con un
esempio. In un musicista eccelso come Brad Mehldau io non sento quasi
mai l’urgenza
di comunicare con chi abbia davanti; per questo, laddove Mehldau è
sicuramente un grande musicista, un pianista magnifico, non lo direi
un grande jazzista.
C’è un suo disco in duo con
Joshua Redman in cui il confronto fra i due, nel segno di questa
differenza espressiva, è istruttivo: io non considero affatto Redman
un grande musicista, ma accanto a Mehldau mi risuona sicuramente più
jazzista. Viceversa, quel carattere comunicativo ritrovo nei lavori maggiori di un Braxton, anche quelle in apparenza più disformi dal
lessico del jazz.
In
vigorosa sintesi, in quello che considero “jazz“
il livello dominante è quello
ritmico.
Lasciami
dire un’altra
ovvietà fulminante:
nel formulare questa risposta men che vaga ho voluto tenere da parte
le mie preferenze, i miei gusti: a me, per esempio, una musica che
abbia un riferimento al blues, alla sua fraseologia se non alle ‘blue
note’, è
sempre gradita, ma mi rendo conto di non poterla considerare una
caratteristica tassativa per la definizione, oggi.
2
Come collocheresti il jazz nel panorama culturale attuale? Un residuo
del passato di particolare valore? Uno stimolo continuo nonostante
una sua collocazione periferica? L'unica vera musica colta
contemporanea?
Mi
riesce difficile perfino percepirlo, il panorama culturale attuale;
davanti a molte sue manifestazioni proposte come tali, e intendo
dire: a espressioni musicali o letterarie che vedo indicate come
significative della temperie artistica odierna e degne di
ammirazione, mi trovo sperso e confuso; forse sono solo sprovvisto
degli strumenti o della buona volontà
indispensabili a
decifrarle.
Il
jazz, come il cinema, è l’arte
del Novecento, lì si colloca la sua nascita e il suo sviluppo anche
se le sue radici sono più lontane. Sarò un ignavo ma ascolto e
studio il jazz che amo senza riuscire a preoccuparmi troppo della sua
attualità e
della sua collocazione. Mi pare che il jazz oggi si trovi tirato da
una parte da pratiche che tendono a dissolverlo, anche a negarlo
(“jazz
is dead”),
dall’altra
da pratiche che, più che di mainstream,
sanno di revival. “L’unica
vera musica colta”?
Forse il legato più importante del jazz, come fenomeno culturale, è
aver privato di senso questa definizione: anche se tanti ascoltatori
del jazz, poi, non sembrano che cercare ragioni per guardare
dall’alto
in basso chi ascolta jazz diverso da quello che loro prediligono.
Nessuno parla più esplicitamente di musiche più o meno colte, ma
forme di classismo
presso gli ascoltatori sono quantomai vive.
3
Pensi che il jazz corra il rischio di diventare musica accademica,
oppure c'è nel suo DNA un antidoto a questa metamorfosi?
Vedi
sopra: credo che oggi sia meno facile di un tempo distinguere che
cosa sia accademia. Ma penso di sì, che questo rischio esista e sia
inevitabile da quando il jazz è diventato materia d‘insegnamento
secondo metodi consolidati: cosa che comunque io trovo assolutamente
positiva. Poi, una cosa è l’accademia,
lo studio istituzionalizzato, un’altra
la conservazione museale, che pure ha ovviamente una sua grande
utilità.
Ti
faccio un esempio musicale preso da un altro ambito: nei Conservatorî
musicali napoletani del
Settecento vigeva una prassi didattica, o un complesso di prassi, che
insegnava l’armonia,
il contrappunto, la composizione attraverso una tecnica che partiva
dall’improvvisazione
alla tastiera, dunque da un approccio materiale, pragmatico alla
musica. Alcuni aspetti di questa didattica si sono successivamente
ossificati, diciamo così, in esercizi di una certa utilità
ma sicuramente più
aridi e meno proficui (i “partimenti“
sono diventati i “bassi
dati”,
noti a chiunque abbia studiato un po’
d’armonia). Ecco, credo che
nell’insegnamento
accademico del jazz si corra questo rischio. Io però non ho mai
studiato jazz accademicamente e quindi può darsi bene che stia
parlando a vanvera.
4
Anche se temo che la tua risposta ricalchi uno schema che si ripete
per molti appassionati, devo chiederlo: come ti sei avvicinato al
jazz?
La
mia storiella forse è un po’ diversa:
alla metà degli
anni Settanta il molto rimpianto “Corriere
dei ragazzi”,
di cui era principale artefice Alfredo Castelli morto da pochissimo,
pubblicò a puntate una ‘Enciclopedia
del jazz‘ a
cura di Vittorio Franchini, il critico del Corriere della sera: un
succinto racconto storico accompagnato da schede per argomento e
biografiche, corredate da fotografie. Quello fu il mio primissimo
approccio al jazz, un approccio muto o forse sordo, perché
mi appassionai a quelle
storie e a quei personaggi senza averne sentito una nota!
Nel
1976, cioè forse l’anno
dopo, in prima media, feci amicizia con un ragazzo che era figlio del
famoso illustratore Ferenç Pinter,
autore fra l’altro
di tantissime copertine per la Mondadori. Aveva illustrato quelle
degli Audiolibri della storia del jazz, cinque cassette a cura di
Arrigo Polillo, e l’amico
me le passò. Cominciai allora ad ascoltare il jazz e, cosa molto
importante per spiegare il mio atteggiamento verso la musica, fin da
principio con grande passione ma con criterio storico. Quell’anno
stesso mi feci regalare, nell’edizione
rilegata e illustrata, “Jazz“
di Polillo, libro di cui
ancora oggi potrei citarti dei passi piuttosto lunghi a memoria, e
cominciai a leggere Musica
Jazz, su cui anni
dopo avrei anche scritto.
Comunque
non sono arrivato al jazz dal rock o dal pop, come molti, né
da una tradizione
famigliare; suonavo già
il piano per una mia
passione per la musica abbastanza irrelata, senza preferenze. Prima
di scoprire il jazz mi piacevano canzoni, pezzi di musica classica,
quello che capitava. Post-jazz
l’ascolto
della musica per me è diventato una cosa seria. Tu mi conosci e ti
stupirai se ti dico che a dodici-tredici anni io ero perfino più
noioso di quanto sia ora.
5
Il tuo lavoro di traduttore ti ha portato a lavorare su testi legati
al jazz e anche a musiche confinanti. Puoi citare alcuni tuoi lavori
più apprezzati?
Sono
state molto apprezzate, non certo per la mia traduzione ma per il
loro valore, le biografie di Thelonious Monk di Robin Kelley e quella
di Charlie Parker di Stanley Crouch; io ricordo poi con piacere
particolare il libro sulla Blue Note di Richard Cook e le “Quattro
vite jazz” di
AB Spellman, tutti libri pubblicati dalla minimum fax.
Per
la EDT ho tradotto una storia del progressive
rock di David
Weigel che gli intendenti hanno giudicato eccellente, e una biografia
di Prince di Ben Greenman, viceversa ritenuta pessima, ma che a me è
servito tradurre perché
mi ha costretto ad
approfondire la musica di Prince e a cercare di capire perché
Prince sia da alcuni
considerato un genio (non l’ho
capito).
Sempre
per la EDT ho fatto due libri di Stuart Isacoff, uno dei migliori
storici-divulgatori americani di musica, “Storia
sociale del pianoforte” e “Rivoluzioni
musicali”,
questo uscito l’anno
scorso. Sono interessanti per il modo in cui Isacoff inserisce il
jazz, di cui ha una conoscenza non superficiale, nel tessuto della
cultura non solo musicale occidentale e come parte essenziale della
musica contemporanea, senza soluzione di continuità,
senza esotismi.
6
Sempre per restare nell'ambito delle traduzioni, quali sono i libri
che avresti voluto tradurre che nessun editore ha voluto pubblicare?
Sono
tanti i libri sul jazz che vorrei vedere tradotti in italiano, se non
da me da qualcun altro: ma negli ultimi anni sembra che gli editori
abbiano perso interesse nel jazz, eppure vent’anni
fa si ebbe un’opera
di traduzione monumentale come il Jazz
di Gunther Schuller per le cure e la traduzione di Marcello Piras
(EDT).
Dico
i primi libri che mi vengono in mente: sarebbe utile avere una
versione di The
Birth of Bebop di
Scott DeVeaux, uno studio essenziale; o della monumentale biografia
critica di Sonny Rollins di Aidan Levy, uscita da poco, o di quella,
musicologicamente orientata, che Eunmi Shim ha dedicato a Lennie
Tristano; ancora, in italiano non esiste uno solo dei molti libri di
Martin Williams o di Nat Hentoff o di Dan Morgenstern, per dire dei
classici. O di Whitney Balliett, per me il più grande dei jazz
writer, a rendere
il quale servirebbe forse un altro scrittore; o, fuori dal jazz vero
e proprio ma nell’ambito
stretto, American
Popular Song di
Alec Wilder…
Tutti
libri che ho proposto senza esito, il più delle volte proprio senza
risposta. La cosa mi amareggia anche perché
di recente ho visto
uscire con gran pompa versioni italiane di libri sul jazz
insignificanti o pessimi.
7
Seguendo le tue recensioni si ha l'impressione che tu sia
particolarmente interessato (ed esperto) ai pianisti, per cui ti
chiedo se lo strumento così strettamente legato alla musica
classica, abbia condizionato il pianismo jazz, con modelli di
riferimento un po' oppressivi, spingendo i pianisti a rincorrerli
inconsciamente?
Qui
rispondere è facile: è come dici tu, perché
laddove il jazz ha
letteralmente reinventato gli strumenti che ha adottato (e nel caso
dei saxofoni e della batteria, li ha inventati), il pianoforte si è
proposto con una tradizione e una diffusione così forti da risultare
ineludibili. Comunque i grandi pianisti del jazz sono quelli che
hanno saputo mettere a frutto le risorse del pianismo classico
disciogliendole nel lessico nuovo senza che nella miscela si
formassero dei grumi: James P. Johnson, Earl Hines, Teddy Wilson,
Jimmy Rowles, Bill Evans.
8
Hai dei pianisti preferiti, indipendentemente dall'importanza storica
che possono avere avuto?
Ne
ho appena detti alcuni, ma francamente è difficilissimo che io senta
un pianista jazz che non mi piaccia! Non faccio nomi, perché
dovrei citare tutti i
più ovvi e credo sia poco interessante sapere che mi piacciono Bud
Powell e Art Tatum. Fra i pianisti di oggi, mi piacciono Ethan
Iverson, molti giovani di non grande risonanza (penso a Nick
Sanders), e quelli della ‘scuola
israeliana’ che
mi sembrano non solo molto ferrati – chi
non lo è,
oggi – ma
anche molto personali: per fare un nome, Gadi Lehavi.
9
È possibile
individuare un nuovo mainstream? E l'avanguardia che spazio e forme
sta prendendo?
Mi
pare che già da
alcuni anni si sia definito un ‘mainstream‘
jazzistico, tanto in America
quanto in Europa, che ha spostato il fuoco dal be bop –
nella sua declinazione hard –
al funk.
Poi io sento in giro parecchio revival, che è altra cosa dal
mainstream.
Sull’avanguardia
jazzistica di oggi, giuro che non so che cosa risponderti ma in gran
parte per ignoranza. Le non molte cose che ho ascoltato e che trovo
presentate, se non come ”avanguardia”,
come una parola nuova nel jazz – penso
a un disco che ho sentito qualche mese fa di Makaya McCraven, o a un
altro di Shabaka Hutchings – non
le trovo né avant-
né minimamente
interessanti e le acclamazioni che ricevono mi lasciano molto, molto
perplesso: ma vedi supra
quanto ti dicevo a proposito del mio spaesamento nella
contemporaneità.
10
Il jazz in Italia è valutato in maniera molto diversi. Tu che ne
pensi?
Io
penso che in Italia, come dappertutto, ci sia sempre stato chi ama e
conosce il jazz e chi invece non ci tiene, tout
simplement. Ma da
un po’ c’è
una novità:
Un
paio d’anni
fa, e ne parlammo anche sulla “Pagina
del jazz“,
fu bandito un concorso, delle borse di studio, ora non mi ricordo,
dal nome caratteristicamente sibillino ma che aveva “jazz”
in bella evidenza anche
grafica; si specificava che l’iniziativa
era “finanziata
dal Ministero della Cultura”.
Nella presentazione i responsabili, con magnifico candore e
improntitudine, dichiaravano: «Certo,
c’è ancora bisogno della schermatura della parola “jazz”
(anche se in questi è
declinata nel modo più progressista e meno conservativo possibile),
molta strada è ancora da percorrere (…)».
C’è
chi ama il jazz, chi non ci tiene, e adesso c’è anche chi lo
adopera per i propri comodi.